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In tribunale funziona l'ombrello della «231»

di Giovanni Negri

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22 marzo 2010
In tribunale funziona l'ombrello della «231»

L'insostenibile leggerezza dei modelli. Almeno sino a ora. Perché con alcune pronunce importanti, prese di recente, le cose potrebbero iniziare a cambiare. Le imprese vedrebbero cioè giustificata quella scommessa che il legislatore fece nel 2001, quando da una parte introdusse con il decreto legislativo 231 la responsabilità degli enti per i reati commessi da dipendenti, mentre dall'altra mise in campo la possibilità di un'esimente per tutte le aziende che avevano adottato congrui modelli organizzativi. Tali da permettere, almeno sulla carta, di scongiurare illeciti come quelli presi in considerazione dalla normativa.

Una possibilità che sinora era stata soprattutto teorica, visto che i pubblici ministeri avevano avuto gioco facile nei procedimenti contro le società: la maggioranza di queste non aveva infatti adottato modelli. Soprattutto non lo aveva fatto in via preventiva e solo dopo l'avvio del procedimento penale, per evitare o ridurre il rischio sanzioni interdittive, si era deciso di introdurli. Nelle rarissime situazioni in cui la magistratura si era trovata ad affrontare (è il caso, per esempio, di Impregilo nella vicenda penale sugli appalti per lo smaltimento dei rifiuti in Campania) società che i modelli li avevano già introdotti, ne era stata di fatto sancita l'inefficacia. Tanto che già nelle Procure, soprattutto per quanto riguarda reati commessi dai vertici dell'azienda, aveva ormai preso consistenza la linea per cui la sola commissione di un illecito rappresentava la migliore prova dell'inutilità del modello (quand'anche introdotto), una sorta di responsabilità oggettiva.

Ora una sentenza del tribunale di Milano però quest'orientamento, che di fatto rendeva inutile o comunque inutilizzabile un'esplicita previsione del legislatore, potrebbe iniziare a rivelare qualche crepa. Anche la pronuncia è stata poi doppiata da un'altra, questa volta del giudice unico di Trani, che condannando tre società per una gravissima sciagura sul lavoro, ha però fornito una serie di indicazioni operative sulla fisionomia e i contenuti del modello su un fronte cruciale come quello del presidio penale a tutela della sicurezza dei lavoratori.

Il Gip del tribunale di Milano, lo scorso 17 novembre, ha prosciolto così una società (si tratta della stessa Impregilo) sulla base della sua condotta "virtuosa". La società, condotta sul banco degli imputati per avere tratto un beneficio dal reato di aggiotaggio informativo compiuto da suoi manager, aveva inserito specifiche misure organizzative sin dal 2003, due anni dopo l'entrata in vigore del decreto, certo, ma «anticipando di gran lunga le maggiori imprese del comparto» e applicando le Linee guida diffuse nel frattempo da Confindustria. Inoltre, dal 2000, un anno prima dell'esordio della responsabilità amministrativa delle imprese, la società aveva adottato un sistema di controllo interno basato sui principi del Codice di autodisciplina dettato da Borsa italiana. Un'attenzione che veniva da lontano quindi, anche se poi la verifica va effettuata in concreto, con riferimento alla situazione antecedente l'illecito, evitando comunque qualsiasi tentazione di «responsabilità oggettiva» a carico della società.

Da Trani, invece, il giudice unico (motivazioni depositate l'11 gennaio) ha chiarito innanzitutto che un'impresa può avere interesse a commettere anche un delitto colposo come le lesioni gravi e gravissime o l'omicidio in materia di sicurezza del lavoro. Non fosse altro che per risparmiare sulle misure da prendere per mettere al riparo dai rischi i propri dipendenti. Quanto ai modelli però, un'impresa che vuole avare le carte in regola davanti alle contestazioni dell'autorità giudiziaria, spiega il giudice, deve evitare almeno due errori: quello di considerare che gli ormai consueti documenti in materia di valutazione rischi possano essere sostitutivi di una specifica organizzazione aziendale intesa a prevenire i reati in discussione. E poi che possano essere evitate misure indirizzate a chi prende contatto con le lavorazioni a rischio della stessa impresa. In altre parole, anche i lavoratori di altre aziende, ingaggiati per fare fronte ad attività anche pericolose, devono essere esplicitamente considerati tra i soggetti cui indirizza il modello.

Il cammino dei giudici

22 marzo 2010
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